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Giuseppe Bertoni (presidente ARNA, Associazione Ricercatori Nutrizione Alimenti e co-fondatore del Centro di Riferimento Agro-alimentare Romeo ed Enrica Invernizzi, IRCAF) (*)
Il tema della dieta umana e della sua maggiore o minore sostenibilità non è nuovo, né sorprende che sempre più spesso si vada a discutere sulla “opportunità” della riduzione (o abolizione), in essa, dei prodotti di origine animale. Molti ricorderanno che negli anni ’80 del XX° secolo furono addotte ragioni di tipo salutistico; infatti, il colesterolo “cattivo”, accresciuto nel sangue dal consumo di grassi saturi, era sembrato essere la principale causa di malattie cardio-vascolari (MCV). Essendo i grassi saturi (e il colesterolo) apportati principalmente dai prodotti animali, fu scatenata la battaglia per ridurre il consumo di tali alimenti: burro, uova e grasso delle carni. Oggi si aggiunge la preoccupazione per la sostenibilità nei riguardi del pianeta, poiché sarebbero causa di perdita di efficienza e dei cambiamenti climatici.
L’ultimo contributo su entrambi i piani, è del 17 gennaio u.s. con il report EAT-Lancet che suggerisce di convertire la dieta del genere umano in vegetariana, o quasi, attribuendo agli animali e ai loro prodotti, importanti effetti negativi – oltre che sulla salute umana – sul piano della produzione dei gas clima-alteranti (i famigerati gas serra: anidride carbonica, metano e ossido nitrico).
Prima di esprimere un parere ancorché pacato su tale documento, è opportuno soffermarsi brevemente su questi due presunti risvolti negativi degli animali. In primo luogo ponendo attenzione alle nuove acquisizioni circa gli effetti degli “animali” sulla salute umana:
Dunque, esiste più di un dubbio sui reali effetti negativi – per la salute – degli alimenti “animali”, fatti salvi gli eccessi; al contrario non ve ne sono per gli effetti positivi ad essi connessi. È infatti certo che, al di sotto di taluni livelli di carni, latte e uova ecc. consumati (per il pesce non vi sono mai state controindicazioni, sul piano nutrizionale almeno), insorgono fenomeni di malnutrizione. Premesso che la circostanza è sempre stata accezione comune fra le nostre popolazioni, lo stesso Report EAT-Lancet evidenzia in un box che le raccomandazioni alimentari in esso suggerite vanno applicate con molta cautela nei Paesi dove l’agricoltura è di sussistenza. Tale riconoscimento è a dir poco curioso, poiché in tali Paesi la dieta è prettamente vegetariana, come Eat-Lancet raccomanda, e peraltro la principale causa della malnutrizione (come personalmente rilevato in India e nella Repubblica Democratica del Congo, dove un livello di malnutrizione medio/grave colpisce il 30-40% dei bambini), le cui gravissime conseguenze in termini non solo di mortalità, ma anche di ritardato sviluppo fisico e cognitivo, sono ben note. Premesso che non stiamo parlando di pochi milioni di persone, ma di poco meno del 50 % dell’intera umanità, ribadiamo che in tali Paesi la dieta è prevalentemente vegetale (cereali, manioca, patate, ecc., quindi in massima parte prodotti amidacei) con poche frutta e verdure non amidacee, pochissimi alimenti di origine animale, ma pochi anche i legumi, per cui modesto è pure l’apporto di proteine vegetali. Questo sbilancio nutritivo, e in particolare la carenza proteica e di micronutrienti vari, spiega i problemi di questa dieta vegetariana; circostanza che, nei Paesi “occidentali”, appare poco comprensibile, giacché molti praticano diete “analoghe” senza gravi problemi. Vale allora la pena ricordare che nei Paesi “poveri” non esiste – per ragioni logistiche e finanziarie – la nostra varietà di cereali, di legumi, di ortaggi, di frutta ecc., senza trascurare la disponibilità di alcuni alimenti “animali”, oltre che degli integratori alimentari. Per questo, sarebbe a maggior ragione “risolutiva”, in questi Paesi, la logica degli alimenti di origine animale che, con modeste quantità, sono un perfetto complemento nutrizionale per la base puramente vegetariana.
Venendo ora alla sostenibilità, in particolare ambientale, ma senza dimenticare quelle economica e sociale, è opportuno richiamare che:
Alla luce di queste osservazioni, eventuali interventi nel riorientare la dieta umana per tener conto della sostenibilità ambientale riducendo al minimo indispensabile i prodotti animali, richiederebbero prima la definizione di tale minimo per garantire la salute ed il benessere umano in ogni condizione. Tuttavia, questo non può essere uguale in tutte le aree del mondo, poiché le diete differiscono per varietà complessiva degli alimenti, costanza della loro disponibilità, qualità dei vegetali e in particolare delle loro proteine, oltre che per la digeribilità. In buona sostanza, ciò significa che il consumo di prodotti di origine animale si può (e si deve?) ridurre nei Paesi sviluppati, ma al contrario deve aumentare in quelli “poveri” se veramente si ha a cuore il bene dell’essere umano (e di tutti gli esseri umani).
Appare allora logico chiedersi se – venendo ora all’aspetto ambientale – abbia un senso porre a rischio la salute dell’umanità – garantita da un uso corretto (senza eccessi, ma anche senza carenze) di prodotti di origine animale – per aver al più una riduzione risibile dell’impatto ambientale. Oppure, al contrario, se non ci si debba sforzare –proprio perché consapevoli che anche piccoli miglioramenti sono utili – sia per ottimizzare le diete dell’uomo in modo da contenere a livelli prudenziali tale consumo e, al tempo stesso, per ottimizzare le tecniche di allevamento animale onde massimizzarne l’efficienza e quindi ridurre l’impatto ambientale, almeno per unità di prodotto. Cosa che si sta facendo da anni; infatti, per produrre 1 litro di latte si rilasciavano 1,35 kg di CO2 nel 2007, contro i 3,66 kg del 1944.
Così stando le cose, possiamo tornare al documento EAT-Lancet, sopra citato, per tentare una qualche considerazione; in particolare partirei dalla composizione della Commissione e dalla introduzione del testo, per orientare il lettore circa le prospettive in esso delineate:
Molto altro si potrebbe dire, ma se è vero che “il buon giorno si vede…”, mi pare possa bastare per nutrire seri dubbi sulle restanti considerazioni del documento.
Credo a questo punto opportuno confermare quanto il 23 novembre 2018 riportavo a conclusione di un mio precedente intervento – sullo stesso tema – all’Accademia dei Georgofili: “mi sento confortato dalle conclusioni di Tilman e Clark (2014): “Le soluzioni al trilemma dieta-ambiente-salute devono andare verso diete salutari, piuttosto che verso quelle in grado di minimizzare le emissioni di gas serra.” Né possiamo infine trascurare che le emissioni animali sono comunque relativamente modeste… come osservato da Giulia Bartolozzi …. con la quale convengo che: parliamone, ma senza ideologie e pregiudizi, ricordando anche la salute dell’uomo.”
Piacenza, 25 gennaio 2019.
(*) L’autore esprime gratitudine ai Proff.ri V. Tabaglio e E. Trevisi per gli utili suggerimenti